Nel 1362 Giovanni Boccaccio riceve la visita di un monaco certosino, Gioacchino Ciani, che lo ammonisce di rinunciare alle seduzioni mondane, soprattutto quelle letterarie, per dedicarsi anima e corpo alle questioni teologiche ed etiche. Lo scrittore toscano, già scosso da una crisi religiosa, prende seriamente i rimbrotti del frate e medita persino di distruggere le proprie opere, a partire da quel Decameron così ricco di episodi “licenziosi” e situazioni vietate ai minori. Per fortuna sarà una lettera dell'amico Petrarca a farlo dissuadere da questo orrendo crimine contro la letteratura, ricordandogli in primo luogo che il valore spirituale di un libro non si giudica solo dall'argomento.
Ma chissà cosa avrebbe detto e fatto Boccaccio se avesse visto il trattamento riservato alle sue novelle da parte del cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta? Perché, a parte due significative eccezioni, il resto della produzione si è tenuta bene alla larga da contenuti morali e fini intellettuali per spingere il piede sull'acceleratore dell'erotismo e della facile comicità.
I due film fuori dal coro sono firmati da alcuni dei più importanti registi dell'epoca: si tratta del Decameron di Pier Paolo Pasolini e di Boccaccio '70, film a episodi girato da Monicelli, Fellini, De Sica e Visconti; due opere molto diverse fra loro ma che conservano un legame forte con il loro modello. Il primo è la trasposizione di nove racconti del Decameron, tra cui alcuni molto noti come la storia di Ser Ciappelletto, quella di Andreuccio da Perugia o di Chichibio: Pasolini resta molto fedele al testo originale, eliminando però la cornice della peste e aggiungendo la vicenda di Giotto a Napoli. Tutt'altro discorso per Boccaccio '70, ambientato ai giorni nostri e che del capolavoro letterario conserva le ambizioni “sociologiche” e culturali: i quattro episodi vogliono infatti mostrare i cambiamenti dei costumi italiani alle prese con il boom economico del dopoguerra. In entrambi i casi vengono predilette le tematiche erotiche: in Pasolini per mostrare quell'esuberanza carnale che secondo il regista rappresenta la componente più vitale e autentica dell'uomo; nel secondo film invece la sfera sessuale è l'emblema della profonda e confusa trasformazione che sta subendo la società nostrana. Probabilmente Boccaccio avrebbe storto il naso anche di fronte a questi due esempi di grande cinema, troppo espliciti e irrispettosi dei valori morali; ma sicuramente avrebbe fatto a pezzi le tante pellicole di successo che l'industria cinematografica ha sfornato nel decennio Settanta, opere oggi di culto per alcuni appassionati di quel filone che proprio dal Decameron prende il nome: il “decamerotico”. Sono film senza pretese, in cui il Medioevo fa da sfondo molto esile a storie leggere a base di sesso e corna, equivoci e battutacce, lavori in cui la fantasia risiede soprattutto nei titoli: a partire dal fortunato capostipite Quel gran pezzo dell'Ubalda tutta nuda e tutta calda, passando per Quando le donne si chiamavano madonne e Fratello homo sorella bona, fino a due campioni del genere come La bella Antonia, prima monica e poi dimonia e Decameron proibitissimo (Boccaccio mio statte zitto), che scomoda addirittura lo scrittore in persona.
Lasciando da parte considerazioni estetiche e giudizi morali su queste opere, è tuttavia interessante notare la popolarità che il libro di Boccaccio ha avuto presso il grande pubblico: un enorme successo che, con buona pace del suo autore, non è dovuto solo alla prosa raffinata e al valore letterario, ma in massima parte alla sensualità e alla vitalità che scaturiscono dalle sue novelle, talmente dirompenti che hanno avuto bisogno di un aggettivo coniato ad hoc per definirle, “boccaccesco”.
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