Questo sito utilizza dati statistici sulla navigazione installati da terze parti autorizzate, rispettando la privacy dei tuoi dati personali e secondo le norme previste dalla legge. Continuando a navigare su questo sito accetti il servizio e gli stessi cookie.

Cinque cose da sapere su Jean-Michel Basquiat

Il Mudec di Milano dedica un'importante retrospettiva a Jean-Marie Basquiat l'artista newyorchese simbolo di quella spinta creativa degli anni Ottanta che nasceva dal basso, dalla controcultura giovanile che si nutriva di rap, droghe e graffiti. Un autore geniale capace di mutuare il linguaggio delle periferie e i suoi fantasmi in opera d'arte e farlo entrare di diritto nelle gallerie e i musei di tutto il mondo. Una fiamma spentasi troppo in fretta – Basquiat muore infatti a 27 anni – e che come ricorda Fred Braithwaite, writer e musicista: «Bruciò luminosissimo. Poi il fuoco si spense. Ma le braci ardono ancora».

Ecco alcune cose da sapere sull'arte e il mondo di Jean-Michel Basquiat.

 

Chi è SAMO?
Nella primavera del 1977 su di un giornale scolastico compare un fumetto il cui giovane protagonista, alla ricerca del senso della vita, si imbatte nella religione SAMO e nel suo mantra: «Samo, la religione senza colpa, e ben altro». L'autore è Basquiat e SAMO diventerà lo pseudonimo con cui firmerà i suoi primi graffiti sui muri newyorkesi, perlopiù frasi pseudofilosofiche e messaggi provocatori.

Ma cosa significa questa parola? Come spiegherà l'artista in un'intervista al “Village Voice”, Samo è la contrazione dell'espressione «Same Old Shit» e ha un valore fortemente critico: è una parodia dei bisogni spirituali fasulli di una società vuota, dominata dal materialismo. Questo alter ego artistico “muore” ufficialmente nell'autunno del 1979, quando SoHo si riempie della scritta “SAMO is Dead” e Keith Haring ne pronuncia il compianto funebre, ma Basquiat continuerà a utilizzare il nome anche in alcune opere successive.

 

L'orgoglio nero
La contestazione sociale e l'antirazzismo ispirano il pittore newyorkese, che ovviamente li reinterpreta secondo i suoi canoni stilistici: non con immagini esplicite ma attraverso l'omaggio concettuale ai personaggi della cultura e dell'universo afroamericano che Basquiat considera esemplari. Troviamo nei suoi quadri i miti dello sport Muhammed Alì e il campione di baseball Jackie Robinson, ma soprattutto il pugile Joe Louis e il velocista Jesse Owens, simboli del sentimento anti-nazista e capaci di sbriciolare con le loro imprese le fragili teorie razziste del Reich; oppure i grandi musicisti jazz, innanzitutto due personalità autodistruttive come Miles Davis e Charlie Parker, a cui dedica il trittico Charles the First, dove appare una frase che sembra sottilmente profetica: «A molti dei giovani re viene tagliata la testa».

 

I simboli come firma artistica
Scritte disordinate e semicancellate, figure stilizzate, primitive, tratti aggressivi e squarci di colore: sono questi gli elementi caratteristici del coinvolgente linguaggio di Basquiat. E poi i simboli ricorrenti che affollano le sue opere, come sempre tra l'ironia e la riflessione. In primo luogo la corona, evocazione del potere che non solo campeggia su molti dei suoi personaggi, i suoi re ammirati e decaduti, ma che diventerà una sorta di firma artistica, perché, come spiega il collega e amico Francesco Clemente: «La corona di Jean-Michel ha tre punte, perché triplice è il suo lignaggio reale: di poeta, di musicista e campione di boxe». L'altra segno grafico onnipresente nei lavori di Basquiat è la © del copyright, già segno di riconoscimento ai tempi dei graffiti giovanili di SAMO: l'indizio di una volontà di emergere, della consapevolezza del proprio talento e della conoscenza disincantata dei meccanismi di mercato che regolano il mondo dell'arte.

 

Un writer non muore mai
Fedele al suo apprendistato artistico come writer, abituato a utilizzare i muri dei palazzi e dei capannoni, i vagoni ferroviari, qualsiasi superficie sufficientemente libera per lasciare il proprio segno, anche una volta smessi i panni del graffitista urbano, Basquiat continuerà a dipingere sui materiali più disparati. Pareti domestiche, pavimenti, porte, tavoli, sgabelli, perfino i frigoriferi saranno impiegati come supporto per la propria inesauribile fame creativa: un affascinante aspetto dell'estro dell'artista, ma che gli causerà notevoli problemi con i suoi ospiti, che si vedranno trasformare l'appartamento in una gigantesca tela.

 

La collaborazione con il re della pop art
Se sei un astro nascente o un artista di successo nella New York degli anni Ottanta, prima o poi è inevitabile che entri in contatto con il mostro sacro della cultura underground e della vita mondana americana, Andy Warhol. Il primo incontro tra Basquiat e Warhol risale all'ottobre del 1982: i due pranzano insieme alla Factory, il quartier generale del padre della pop art, e poche ore più tardi il giovane pittore ha già realizzato un quadro a partire da una foto scattata durante l'incontro. Tra il maestro e l'enfant prodige nasce presto un'amicizia e un rapporto creativo che si concretizza con due mostre collettive.

La prima è Collaborations, del 1984, e raccoglie alcune opere eseguite a sei mani: Basquiat, Warhol e Francesco Clemente, esponente di spicco della Transavanguardia italiana, dialogano sulla tela, ognuno con la propria cifra stilistica: una fusione tra graffiti, stampe retinate e figure dai colori accesi. L'anno successivo è la volta dei Paintings, una collaborazione dei soli Basquiat e Warhol, giudicata dalla critica in maniera negativa ma della quale resta uno splendido poster dei due nei panni di boxeur.

Come ha scritto l'artista pop Ronnie Cutrone: «Era come un pazzo matrimonio artistico di cui loro erano la folle coppia. Basquiat credeva di aver bisogno della fama di Warhol e Warhol pensava di aver bisogno della giovinezza di Basquiat».

 

Se vuoi conoscere meglio l'arte di Basquiat guarda l'intervento di Achille Bonito Oliva sull'arte degli anni Ottanta.