Che follia, o cittadini, che sfrenato arbitrio delle armi
Offrire il sangue latino alle genti nemiche!
Lucano, Pharsalia
A guardare la placida piana di Farsalo oggi, sembra difficile immaginarla percorsa da due eserciti agguerriti che si affrontano nella battaglia decisiva. Il puzzle verde e giallo dei campi ordinatamente separati e le montagnole brulle a fare da spalti evocano più un'immagine bucolica da pastori con armenti e contadini che riposano all'ombra di un albero che quella di soldati che si scagliano l'uno contro l'altro in uno scontro sanguinoso. Eppure Farsalo, piccola città greca della Tessaglia, è passata alla storia per aver visto il tragico epilogo della guerra civile tra le fazioni di Giulio Cesare e di Gneo Pompeo.
Era uno dei periodi più bui per la repubblica romana, mai completamente pacificata nei suoi oltre quattrocento anni di storia e ora giunta alla resa dei conti finale tra i due gruppi di potere più influenti: da una parte gli optimates, l'aristocrazia senatoriale più “conservatrice” o tradizionalista, un tempo rappresentata da Lucio Cornelio Silla e adesso radunata sotto le insegne di Pompeo; dall'altra i populares, anch'essi di estrazione nobiliare, ma che strizzavano l'occhio agli “uomini nuovi” della borghesia e cercavano l'appoggio e il coinvolgimento della plebe. Era il partito dei Gracchi, di Gaio Mario e ovviamente di Gaio Giulio Cesare.
Fin dai tempi del triumvirato la convivenza tra Cesare e Pompeo era stata disagevole; li dividevano il retaggio familiare, l'appartenenza politica e l'ambizione al comando. Entrambi si erano distinti come straordinari generali: Pompeo aveva contribuito a sedare la ribellione di Spartaco e soprattutto aveva condotto le spedizioni contro i pirati che infestavano il Mediterraneo e in Oriente contro Mitridate, sovrano del Ponto; Cesare era semplicemente l'uomo che in meno di un decennio aveva conquistato l'intera Gallia e sottomesso le sue popolazioni.
Le frizioni tra i due uomini e le loro fazioni erano continuate e si erano sempre più aggravate fino a esplodere in seguito a quel famoso 10 gennaio del 49 a.C., quando Cesare aveva attraversato il fiume Rubicone in armi: un gesto simbolico che preludeva a una vera dichiarazione bellica, giacché il piccolo corso d'acqua segnava il confine “sacro” dello Stato romano entro cui nessun uomo poteva entrare armato senza il consenso della repubblica. Da lì la guerra civile aveva subito un crescendo vertiginoso e da Roma e l'Italia il campo di battaglia si era allargato fino a coinvolgere l'intero bacino del Mediterraneo, dalla Spagna a Marsiglia, dall'Albania fino appunto a Farsalo.
Il 6 giugno del 48 a.C., appena un anno e mezzo da quel fatidico gesto, i due eserciti si ritrovano nella piana che il poeta Lucano, negli splendidi versi della Pharsalia, chiamerà “il funerale del mondo”. Le premesse sembrano giocare a favore dei pompeiani. A marzo infatti Cesare ha subito una dura sconfitta a Dyrrhachium, l'odierna Durazzo, ha subito un imponente blocco navale nell'Adriatico e si è infine ritirato in Grecia cercando di guadagnare tempo per rimettere in sesto le forze fisiche e psicologiche dei suoi soldati; al contrario il rivale ha dalla sua parte il morale delle truppe e il numero soverchiante delle milizie: secondo gli storici antichi Pompeo guida uno schieramento di 45.000 fanti e 7.000 cavalieri, praticamente il doppio di quello nemico.
Eppure Cesare ha eseguito perfettamente i suoi calcoli e ha in mente una strategia che si rivelerà vincente. Innanzitutto ha studiato il teatro dello scontro, la vasta distesa di Farsalo, caratterizzata dagli ampi spazi pianeggianti ma anche dai fianchi rocciosi delle montagne e dalle rive scoscese del fiume Enipeo, che riducono drasticamente le possibili vie di fuga. È proprio qui che costringe Pompeo a disporre i suoi uomini, così da limitarne i movimenti e poterne controllare più facilmente le mosse. In secondo luogo Cesare sa bene che la cavalleria è l'elemento determinante dell'esercito avversario, per numero, impatto ed efficacia e dunque, fin dalle battute iniziali, concentra gli sforzi per contenerne la spinta. Ma non è tutto, perché con un'astuta tattica rovescia repentinamente le sorti della battaglia. Il grande generale romano infatti conosce il comandante della cavalleria di Pompeo, cioè Tito Labieno, già suo luogotenente in Gallia, e altrettanto bene conosce il suo modus operandi in combattimento, vale a dire cercare il lato debole dei rivali per attaccarlo, sgominarlo e poi convergere verso il grosso dell'armata nemica. La tattica di Cesare è tanto semplice quanto astuta: simula un lato debole così da attirare Tito Labieno e i suoi cavalieri, dopodiché fa intervenire a sorpresa un contingente tenuto come riserva, sei coorti di soldati esperti – almeno 5.000 uomini – che avvolge gli avversari in una manovra a tenaglia. La rotta imprevista della cavalleria di Pompeo provoca un effetto a catena, anche la fanteria lascia il passo alle milizie di Cesare guidate da Marco Antonio e in breve tempo appare chiaro chi sarà il vincitore. Per i pompeiani è una sconfitta tremenda, le perdite subite durante il combattimento e la drammatica ritirata sono consistenti: le fonti parlano di 15.000 morti, a fronte di appena duecento vittime in campo opposto.
Farsalo è l'ultimo atto del feroce confronto tra i due grandi antagonisti: in seguito alla capitolazione Pompeo si rifugia in Egitto dove sarà ucciso a tradimento alla corte del sovrano Tolomeo XIII; per Cesare è invece l'affermazione definitiva e il preludio alla sua egemonia su Roma. Ma Farsalo sancisce anche la fine dell'antica istituzione repubblicana, formalmente ancora in vita per quasi vent'anni più, in realtà semplice impalcatura politica destinata a crollare del tutto con il principato di Ottaviano Augusto.