La morte di Albert Camus è ancora avvolta nel mistero: in quell'automobile schiantata contro un platano in quel freddo mattino del 4 gennaio del 1960, qualcuno a distanza di cinquant'anni continua a vedere i contorni di un giallo, di un delitto perfetto architettato nientemeno che dal Kgb, i servizi segreti sovietici, desiderosi di mettere a tacere una voce estremamente critica nei confronti dei fatti di Ungheria e del pugno di ferro del regime socialista. Si tratta solo di supposizioni, la realtà dei fatti è che a soli 46 anni si spegneva un grande intellettuale del Novecento, scrittore, drammaturgo e filosofo, protagonista dell'esistenzialismo e autore di un'acuta riflessione sulla condizione umana illustrata in due saggi fondamentali, Il mito di Sisifo e L’uomo in rivolta.
Il mito di Sisifo
Per spiegare la condizione umana, nel suo saggio Il mito di Sisifo, Camus usa la figura dell’eroe mitico Sisifo, figlio di Eolo e fondatore della città di Corinto. Secondo la leggenda, Sisifo era il più scaltro tra gli uomini e usò la sua astuzia per cimentarsi in numerose imprese, arrivando a confrontarsi anche con gli dei. Come punizione per aver sfidato i numi, Zeus decise che Sisifo avrebbe dovuto trasportare un pesante macigno dalla base fino alla cima di un monte, da dove sarebbe inevitabilmente rotolato di nuovo a terra. Ogni volta e per l’eternità l’eroe avrebbe dovuto ricominciare da capo la sua scalata.
Sisifo è per Camus l’“eroe assurdo”, condannato a un lavoro gravoso e senza alcun fine, e la sua immane fatica rappresenta l’inutile ricerca del senso ultimo della vita. La cognizione dell’assurdità dell’esistenza affiora nel momento in cui la nostra necessità umana di trovare risposte sul significato della vita si scontra con “il silenzio irragionevole del mondo”, ovvero con l’impossibilità di soddisfare i nostri interrogativi. Questa rivelazione porta l’uomo a domandarsi se, pur nella sua assurdità, la vita valga la pena di essere vissuta o se, piuttosto, sia preferibile abbandonare “una guerra in cui è già vinto”, optando per il suicidio. Eppure, ritirarsi equivarrebbe a perdere volontariamente: perciò è indispensabile sostenere il confronto con il silenzio irragionevole del mondo, come per Sisifo è indispensabile continuare a sospingere un masso che finirà per rotolare sempre a valle, pur di negare gli dei. Il Sisifo di Camus non è una vittima disperata, ma un uomo felice poiché, sfidando apertamente l’assurdità, ha dato un senso alla sua vita.
L’uomo in rivolta
E proprio in questa ribellione verso l’assurdo che Camus identificherà in seguito, nel saggio L’uomo in rivolta, una possibile “soluzione” alla questione esistenziale. Soltanto nella rivolta contro tutte quelle condizioni che ostacolano la vita – siano esse di natura sociale, politica, economica – e nella solidarietà con gli altri esseri umani, che vivono tutti la stessa condizione di assurdità, è possibile dare un senso alla propria esistenza. Tuttavia, Camus non auspica che il ribelle si trasformi nel rivoluzionario, che spesso, partendo con l’intenzione di salvare vite, finisce invece per distruggerle. Per l'intellettuale francese, infatti, la logica della rivolta «sta nel voler servire la giustizia per non accrescere l’ingiustizia della condizione umana, nello sforzarsi al linguaggio chiaro per non infittire la menzogna universale e nel puntare, malgrado la miseria umana, sulla felicità».
Eppure, il ribelle non potrà mai sfuggire alla condanna di Sisifo: «L’uomo può signoreggiare in sé tutto ciò che deve essere signoreggiato. Deve riparare nella creazione tutto ciò che può essere riparato. Dopo di che i bambini moriranno sempre ingiustamente, anche in una società perfetta.
Nel suo sforzo maggiore l’uomo può soltanto proporsi di diminuire aritmeticamente il dolore del mondo».