Durante il suo soggiorno paradisiaco Dante ha un'interessante conversazione con il trisavolo Cacciaguida, memoria storica della famiglia Alighieri, che, spronato dalle domande del poeta, gli preannuncia il futuro esilio da Firenze e il suo viaggio coatto attraverso le corti italiane: «Tu lascerai ogne cosa diletta più caramente. […] Tu proverai sì come sa di sale/lo pane altrui, e come è duro calle/lo scendere e 'l salir per l'altrui scale».
Quindi in maniera evidentemente parziale – si tratta pur sempre del pronipote – Cacciaguida lancia un'invettiva contro i fiorentini che lo hanno accusato di falsi crimini e soprattutto contro gli altri fuorusciti, «la compagnia malvagia e scempia», destinati a una tremenda sconfitta e dai quali Dante vuole prendere il più possibile le distanze.
Ma come andarono veramente le cose? Cosa aveva fatto il grande poeta per incorrere nella condanna all'esilio? La sentenza pronunciata il 27 gennaio del 1302 è molto grave e parla di “baratteria, concussione, estorsione e opposizione sediziosa alla politica papale”. Per capire le motivazioni di una tale incriminazione bisogna calarsi nella vita politica della Firenze di fine Duecento, un groviglio di interessi privati, di scontri tra gruppi di potere.
Verso la fine del secolo infatti, la città toscana viveva, alla pari di tanti altri comuni italiani, una fase di instabilità politica: i ghibellini filo-imperiali erano stati sconfitti definitivamente a Colle di Val d'Elsa nel 1269, ma la situazione non era migliorata come ci si sarebbe aspettato. Anzi, l'idea di detenere il governo della città egemone dell'Italia centrale aveva dato il via a una corsa alle cariche pubbliche più vibrante che mai. Le famiglie e le corporazioni riunite in “consorterie”, praticamente le lobby dell'epoca, si davano battaglia per i propri interessi e presto si arrivò a una divisione netta tra due fazioni principali: i guelfi Bianchi, formati da ricche famiglie provenienti dal contado e recentemente insediatesi a Firenze, orientati verso una maggiore autonomia rispetto alla politica papale; e i guelfi Neri, i membri dell'antica aristocrazia fiorentina, alleati fedeli del pontefice, favorevoli alla sua ingerenza negli affari cittadini. Dante non solo faceva parte della parte bianca, ma era anche uno dei suoi componenti più attivi, tanto da essere prima nominato prima nel più importante consiglio cittadino, quello dei Cento, e poi eletto come priore, vale a dire la massima carica pubblica comunale.
Nei due mesi di governo, perché la sua esperienza durò appena dal giugno all'agosto del 1300, bisogna ammettere che lo scrittore fu anche abbastanza imparziale e forse per questo ancora più inviso all'opinione pubblica: nel tentativo di eliminare le violenze tra clan per esempio, non esitò a bandire da Firenze i capi delle due fazioni rivali, tra cui il suo grande amico e collega di lettere Guido Cavalcanti. Ma fu il suo energico impegno contro le intromissioni papali a decretare la fine di Dante. Avere un nemico così potente come il pontefice – in questo caso Bonifacio VIII, non di certo uno stinco di santo – era come maneggiare una bomba a orologeria pronta a esplodere. E la deflagrazione avvenne con l'ascesa al potere dei Neri che, nel fare piazza pulita degli oppositori, riservarono un posto d'onore a un pericoloso nemico di Bonifacio quale era Dante. L'iniziale condanna a due anni di esilio si tramutò, complice il rifiuto del poeta a presentarsi in città per discolparsi, nell'allontanamento perpetuo e nella minaccia di morte qualora fosse stato trovato in territorio proibito.
Se nei primi anni di esilio Dante lottò per rientrare a Firenze, presto sfiduciato abbandonò le sue speranze di ritorno: sicuramente un avvenimento doloroso, come ricordano le pagine della Commedia, ma se vogliamo anche propizio, perché fu proprio durante il periodo lontano da casa che maturò il suo stile letterario e scrisse i suoi grandi capolavori.