Perché andiamo al cinema? Cosa ci sprona a entrare in una sala buia e a sederci davanti a uno schermo? Tralasciando le ovvie ragioni di intrattenimento, la psicologia ci può venire in aiuto per comprendere alcuni meccanismi della visione cinematografica; in particolare la teoria dello specchio di Jacques Lacan, lo psicoanalista francese che ha dato una delle riletture più originali del pensiero di Freud.
Come spiega Lacan ne “Lo stadio dello specchio”, tra i sei e i diciotto mesi il bambino, che ha il senso della vista ben sviluppato ma limitate capacità motorie, impara a riconoscere la propria immagine riflessa nello specchio: in questo modo scopre di essere un soggetto autonomo rispetto al resto del mondo e costruisce così il primo abbozzo di identità, il “nucleo dell'Io”. A partire da questa teoria, alcuni studiosi sostengono che ciò che succede al bambino avvenga allo spettatore al cinema. Egli, dinanzi allo schermo, a causa dell'immobilità forzata e del totale assorbimento del campo visivo, tende a riprodurre l'esperienza vissuta in età infantile: come davanti allo specchio lo spettatore sperimenta un processo di identificazione con i personaggi del film, vive in prima persona le loro vicende e prova le stesse emozioni, e così facendo rafforza il proprio Io.
Il culmine di questa immedesimazione è rappresentato dallo sguardo diretto in macchina dell'attore, che ricalca in tutto e per tutto il riflesso dello specchio: un espediente dall'effetto conturbante usato con successo da grandi registi come Alfred Hitchcock e Ingmar Bergman.
Una teoria affascinante, formulata anche sull'onda dell'interesse che Lacan riponeva nella settima arte: non è un caso che durante un suo seminario, per spiegare il ruolo dell'analista, il celebre psicanalista fosse ricorso all'esempio di due pellicole famose come Psycho e Improvvisamente l'estate scorsa.
Per conoscere meglio le tesi di Jacques Lacan guarda la conversazione con il professore Massimo Recalcati.