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Umberto Veronesi e l'evoluzione della lotta contro i tumori

 

Si è spento nella serata di martedì 9 novembre l'oncologo Umberto Veronesi, uno dei più grandi scienziati italiani, l'uomo che ha dedicato la vita alla lotto contro i tumori e che ha ideato e diretto l'Istituto Europeo di Oncologia. Noi di Eduflix Italia lo ricordiamo con un breve estratto da una conversazione che il professor Veronesi realizzò con noi qualche anno fa, in cui illustrava le sue ricerche e le frontiere della battaglia contro il cancro. 

 

Nuovi metodi per combattere il cancro

Queste nuove metodologie di studio clinico si sono diffuse in maniera sempre più rilevante dopo gli anni Cinquanta-Settanta del secolo scorso. Ho avuto la possibilità di impostare il primo grande studio comparativo in un campo che era ovviamente vicino a me. Facevo il chirurgo, e allora si pensava di poter migliorare la curabilità dei tumori al seno allargando la chirurgia a una stazione di linfonodi che di solito veniva trascurata: erano i linfonodi della catena mammaria interna. Misi a punto, insieme ad altri, una tecnica chirurgica relativamente semplice che permetteva di togliere questi linfonodi, e così la metà di circa 1500-1800 casi vennero trattati con la vecchia tecnica e l’altra metà con la tecnica che prevedeva l’asportazione anche di questi linfonodi. Impregnati dalla cultura di allora, che considerava l’estensione chirurgica come la condizione necessaria per la guarigione, eravamo quasi sicuri che allargando l’atto chirurgico si potesse avere maggiore curabilità. E invece non fu così. Fu una prima grande sconfitta, da una parte, perché il risultato fu negativo, senza alcuna differenza tra i due gruppi; ma dall’altra fu una vittoria perché ci impose di voltare pagina, cambiare completamente le nostre prospettive: si capì che allargare l’atto chirurgico non serviva a niente. Dentro di me nacque l’idea che, se allargare non cambia niente, forse diminuire e ridurre l’atto chirurgico non avrebbe compromesso niente. Nacque così la chirurgia conservativa. Devo aggiungere che quello studio fu reso possibile dalla collaborazione di cinque istituti europei, che permise di raccogliere un numero di pazienti tale da attribuire un valore statistico adeguato ai nostri studi. Forse sarebbe bastato anche un numero inferiore di casi, ma quel numero elevato consentì di compiere anche studi più approfonditi sui sottogruppi e verifiche dell’evoluzione della malattia.

Una conquista importantissima

Il fatto che non ci fossero vantaggi allargando la chirurgia mi spinse a ideare una formula terapeutica nuova. A quei tempi la chirurgia del seno era devastante: tutte le donne venivano trattate, anche per un tumore di soli tre millimetri, con la cosiddetta mastectomia: la mammella veniva asportata completamente, e venivano tolti anche i muscoli pettorali. La mutilazione era quindi molto vasta, una vera deturpazione del corpo delle pazienti. Mi ribellai a questa situazione, sentivo che non era giusto sottoporre le persone a questo penoso tipo di aggressione chirurgica, e quando i dati del primo studio collaborativo dimostrarono che non era necessario o che non era utile allargare la chirurgia, mi rinfrancai e cominciai a pensare di impostare una serie di studi, sempre di tipo comparativo, che andassero a verificare l’opposto, cioè quanto si potesse ridurre l’entità dell’aggressione chirurgica (poi di quella radioterapica, della chemioterapica e così via). Il concetto di base era l’importanza attribuita alla qualità della vita; fino ad allora si era considerata solamente la sopravvivenza - ed è comprensibile, se si tiene presente che il tumore sembrava una malattia incurabile – ma quando si cominciò a pensare che dal cancro si poteva guarire, riflettei sul fatto che guarire con una pessima qualità della vita è una guarigione molto parziale. In un famoso convengo dell’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, a Ginevra, nel 1969, lanciai una sfida globale a tutte le terapie dei tumori: dissi che non dovevamo più seguire il vecchio paradigma secondo il quale bisognava sottoporre ogni paziente al massimo trattamento tollerabile, ma dovevamo invece cercare di identificare il minimo trattamento efficace. Questa posizione naturalmente provocò la reazione negativa di moltissimi chirurghi americani, che ritenevano l’asportazione totale di un organo colpito da tumore indispensabile per la guarigione; io, però, ero così convinto della bontà della mia idea che all’Istituto dei tumori di Milano radunai in molti anni un campione di settecento pazienti colpite da tumore al seno; metà venne operata con la mastectomia e l’altra metà con un piccolo intervento parziale. Dopo dieci anni dall’inizio di questo studio vedemmo che non c’era differenza tra chi aveva subito un grosso intervento mutilante e chi era stata invece sottoposta a un intelligente intervento di asportazione del solo nodulo tumorale: un risultato che capovolse completamente la situazione.

I tumori del seno oggi vengono scoperti molto più precocemente e guariscono molto di più. Se una volta nessuna donna guariva, negli anni Cinquanta ne guariva il 20%, negli anni Ottanta il 40%, oggi guarisce il 90% delle donne: si è quindi trattato di una conquista importantissima, ottenuta grazie a una serie di studi mirati sempre a definire il minimo trattamento efficace.